domenica 27 gennaio 2008

LILIANA SEGRE: una testimonianza per mantenere viva la nostra Memoria


Mi chiamo Liliana Segre, sono nata a Milano nel 1930 e a Milano ho sempre vissuto. La mia famiglia era ebraica agnostica, cioe’ non frequentavamo il Tempio o ambienti ebraici. Io ero una bambina amatissima, vivevo in una bella casa della piccola borghesia, insieme a mio padre e ai miei nonni paterni, in quanto la mia mamma era morta poco dopo la mia nascita.

Avevo otto anni al momento delle leggi razziali e mi ricordo come una netta cesura nella mia vita quella fine estate del 1938 quando mio papà cercò di spiegarmi che, poiché ero una bambina ebrea, non avrei più potuto continuare ad andare a scuola. Non posso dire di aver capito allora quello che stava succedendo, però mi sono sempre ricordata, dopo, come mi ero sentita quel giorno che ha diviso la mia vita in un prima e in un dopo. La mia era sempre stata una famiglia laica e io non mi ero mai posta il problema di che cosa volesse dire essere una bambina ebrea. Lo avrei ben capito in seguito, anno dopo anno, giorno dopo giorno, man mano che la persecuzione si è fatta più dura, quando è scoppiata la guerra e i nazisti sono diventati i padroni dell'Italia del Nord. Nel 1943 ero una ragazzina ormai tredicenne, molto consapevole di quello che avveniva intorno a lei.
Falliti altri tentativi di sfuggire alla persecuzione, nel corso dei quali dovetti abbandonare la mia casa e dire addio ai miei nonni, poco prima che venissero deportati e uccisi ad Auschwitz, prima che ci arrivassi io, anche per me e per mio papà venne il momento di tentare la fuga in Svizzera.
Anche per noi le cose andarono male, non trovammo però, come Goti, dei contrabbandieri che ci vendettero per quattro soldi, ma un ufficiale svizzero, di una piccola stazione di polizia di frontiera del Canton Ticino, che ci riconsegnò alle autorità italiane dopo che eravamo già riusciti a espatriare.

Una bambina in carcere
Entrai così, a 13 anni, nel carcere femminile di Varese ed ero da sola nell’umiliante trafila della fotografia e delle impronte digitali, da sola a camminare in quei corridoi dietro a una secondina e a chiedermi per quale colpa mi trovassi lì. Io le prigioni le avevo viste solo al cinema, non sapevo come erano fatte, non sapevo che all'ora del tramonto le guardie venivano a picchiare sulle sbarre per controllare che non fossero state segate da me o dalle altre poverette prese come me sul confine! Fu così a Varese, fu così a Como, fu così a San Vittore, dove rimasi per 40 giorni. Ma lì ero contenta, perché le famiglie erano state riunite e io ero in cella con il mio papà.
Due o tre volte alla settimana gli agenti della GESTAPO portavano via tutti gli uomini del raggio degli ebrei per interrogarli. Io sapevo che erano interrogatori terribili, in cui si torturava e si picchiava, e ci pensavo quando rimanevo sola nella cella aspettando che tornasse mio padre. Aspettavo un'ora, due ore, tre ore; diventavo vecchia leggendo le scritte di quelli che erano passati prima di noi: maledizioni, addii, benedizioni, nomi, "ricordatevi di me". Poi lui tornava: era pallido, la barba lunga, gli occhi segnati, non mi raccontava niente, ci abbracciavamo. Mi svegliavo qualche volta di notte nella branda che era quasi rasoterra, una brandina di ferro, e lo trovavo qualche volta inginocchiato vicino a me che mi chiedeva scusa per avermi messo al mondo. Lui che avrebbe voluto darmi il massimo.
Alla fine di gennaio, nell'implacabile appello dei 650 nomi circa compresi nel successivo trasporto, furono pronunciati anche i nostri. Un vecchio cugino di mio padre, che a gran fatica, da Ravenna, aveva raggiunto la Svizzera e da là era stato respinto, a sentire il suo nome si uccise buttandosi giù dall'ultimo piano del raggio. Quel corpo scomposto, grottesco, quel fagotto buttato sul pavimento del carcere, fu il primo morto che vidi nella mia vita.
Ci misero in fila e ci caricarono sui camion per portarci alla stazione centrale. Da lì cominciò il nostro viaggio verso il nulla. Un viaggio di gente che era alla vigilia della morte, un viaggio in cui non c'era più niente da dire, un viaggio in cui tutti, dopo aver pianto e i più fortunati pregato, stavano in silenzio.
Arrivammo ad Auschwitz in pieno inverno. Era stato un viaggio inumano, ma inumano fu l'arrivo: quando fummo scaricate a calci e pugni su quella spianata enorme che i nostri aguzzini avevano preparato per noi nel lager di Birkenau, un lager femminile enorme, una città di disperazione. Fummo separati, uomini e donne, e io nei miei tredici anni spauriti, non conoscendo nessuna lingua straniera, senza capire dove mi trovavo e che cosa mi stava succedendo, io, senza saperlo, lasciai per sempre la mano del mio papà. Lui è rimasto là quel 6 febbraio 1944.

Noi sceglievamo la vita
Io passai la selezione senza sapere che venivo scelta per la vita o per la morte. Ero tra le più giovani, anzi io non conobbi in campo nessuno che fosse più giovane di me. Mi scelsero perché ero grande e grossa e dimostravo più anni di quelli che avevo. Entrai nel campo e iniziò anche per me quella vita, fondata sulla più totale disumanizzazione in cui la voglia di vivere, per noi che siamo tornate, era l’unica cosa che contasse. Anche nella situazione più spaventosa noi sceglievamo la vita, anche se ci volevano uccidere ogni minuto per farci scontare la colpa di essere nate.
Fui scelta per un lavoro che si svolgeva per fortuna al coperto. Dico sempre che sono viva per quello. Rimasi un anno nella fabbrica di munizioni Union, che apparteneva alla Siemens. Eravamo schiavi senza alcun diritto che lavoravano fino all'esaurimento delle forze.
Com'erano i rapporti fra di noi prigioniere? I rapporti per me furono difficilissimi: io mi rinchiusi in quei mesi sempre di più in un silenzio doloroso. Dapprima il silenzio in cui mi aveva costretto la separazione da tutti coloro che avevo amato, poi il silenzio perché non capivo le lingue che si parlavano, poi il silenzio perché avevo paura di attaccarmi a qualcuno che mi sarebbe stato di nuovo strappato. Ma era anche il silenzio spaventoso che sentivamo intorno a noi, il silenzio del mondo che non si dava pensiero di quello che ci stava succedendo. Era forse anche il silenzio di Dio che in quel momento, ad Auschwitz, si è distratto.
Tre volte passai la selezione nel corso di quell'anno. Nude, perché la nudità era un'altra umiliazione costante della nostra vita di tutti i giorni, passavamo davanti agli ufficiali delle SS, elegantissimi nelle loro uniformi. Noi, le disgraziate ragazze della fabbrica Union, ci specchiavamo le une nelle altre con i nostri corpi scheletriti mentre i nostri aguzzini, decidevano chi era ancora in grado di lavorare e chi no. Ragazzi, è difficile attraversare un corridoio, dover varcare una porta obbligata e sapere che chi ti osserverà, nuda, davanti e dietro, in bocca, dappertutto, poi deciderà se tu continuerai a vivere oppure no. Come bisogna atteggiarsi davanti a un tribunale così, composto di uomini che a casa avevano una famiglia, delle figlie forse della nostra età, e che ci guardavano, sorridendo calmi, tranquilli, senza una parola? Solo un cenno del capo per dire "avanti". E io ero felice quando mi facevano quel cenno, perché ero ancora viva, perché io volevo vivere. Io avevo 13 anni, e poi 14, e volevo vivere.

La "marcia della morte"
Alla fine di gennaio del 1945, quando era passato un anno dal mio arrivo nel campo, cominciammo a sentire da lontano rumore di cannonate e di bombardamenti: qualche cosa stava succedendo. Ed ecco che dalla fabbrica Union arrivò il comando di evacuare il campo. E, così come eravamo, ci fecero alzare da quei banchi, dove lavoravamo per fare proiettili e munizioni, e venimmo avviate per quella che sarebbe stata chiamata la "marcia della morte". Io, quando cominciai a capire che dovevo camminare, comandai al mio corpo: "Una gamba davanti all'altra! Devi andare avanti, devi andare avanti...". Camminammo per giorni attraverso la Germania, camminavamo soprattutto di notte: città deserte, paesini deserti e le nostre sentinelle implacabili finivano con un colpo di pistola quelle che cadevano. Io non mi voltavo, non mi voltavo a vedere quelle che cadevano, non mi voltavo a vedere la neve sporca di sangue. Io non mi voltavo neanche quando ero nel campo e c’erano i mucchi di cadaveri scomposti fuori dal crematorio pronti per essere bruciati. Io non mi voltavo per guardare le compagne in punizione, io non volevo sapere di torture, di esperimenti, di racconti spaventosi, Io non volevo sapere, io volevo vivere e mi sdoppiavo in un'altra personalità: non ero lì, non ero io quella che faceva la marcia della morte. Ci buttavamo come pazze sugli immondezzai e raccoglievamo bucce di patate, torsoli di cavolo marcio, un osso già rosicchiato dal cane di casa, e ci disputavamo questi orrori io e le mie compagne, le bocche sporche, scheletri orribili. Alzavo la testa a vederle, le mie compagne, e vedevo me stessa, la mia faccia scheletrita, ferina, bestiale. Eravamo le stesse a cui un anno o due prima, intorno a una tavola ben apparecchiata qualcuno aveva detto: "Ho fatto per te la torta che ti piace, ne vuoi ancora?". Ma lì non c'era la tovaglia bianca, non c'era il viso amato della nonna Olga davanti a me. Rosicchiavo felice quel pezzo di osso. Non importa se poi avrei vomitato e avrei avuto la diarrea: intanto mettevo qualcosa nello stomaco.
Passammo così da un campo all’altro, sempre più a Nord della Germania, fino a quello di Malchow, l’ultimo dove fui detenuta. Ci eravamo arrivate con la forza della disperazione, come non lo saprei più dire; eravamo tanti chilometri lontano da Auschwitz! Non lavoravamo più in questo campo, non c’era più quella disciplina dell'orario, della fabbrica. Passavamo delle giornate infinite, quasi più nessuno si alzava da quei giacigli su cui stavamo ammucchiate. Ma eravamo ancora vive. C’erano dei ragazzi, dei prigionieri francesi, che passavano fuori dal campo e ci dicevano: "Non morite! La guerra sta per finire. I nostri aguzzini la stanno perdendo, arrivano i russi da una parte e gli americani dall'altra." Noi rientravamo nelle baracche e dicevamo a quelle che veramente erano ormai alla fine: "Ci hanno detto: non morite! Noi lo ripetiamo a voi: non morite! La guerra sta per finire."
Era una gioia troppo grande, noi che eravamo abituate alla fame al freddo, alle botte, all'aver perduto tutto, alla paura costante, non eravamo preparate a una gioia così grande come quella. Era vero: gli aguzzini stavano perdendo la guerra e nel giro di pochi giorni portarono via tutto da quel campo. Portavano via scrivanie, macchine da scrivere, soprattutto portavano via documenti compromettenti su quegli orrori che avevano perpetrato per anni e dei quali non volevano lasciare tracce. E, ancora una volta, ci comandarono di evacuare il campo. Noi eravamo ormai dei fantasmi e non ce l'avremmo più fatta a fare una marcia, ma quasi tutte ci alzammo da quei giacigli, anche quelle in punto di morte. E però, nel giro di pochissime ore fummo testimoni della storia che cambiava: i vincitori diventavano vinti e i nostri aguzzini buttavano le divise nei fossi sul lato della strada, buttavano le armi, scioglievano i cani. I civili scappavano dalle case trascinando dietro tutti i loro valori. E noi, attonite, ci guardavamo attorno e ci chiedevamo che cosa stava succedendo. Vedevamo i soldati tedeschi mettersi in borghese, li guardavamo e li immaginavamo tornare alle loro case: affettuosi padri, solerti maestri, coscienziosi impiegati di banca.
Poi, nel giro di pochissimo tempo, arrivarono prima i camion dei soldati americani che ci buttavano tavolette di cioccolato, frutta secca, sigarette. Poi le truppe dell'Armata Rossa, gente di tutte le etnie: mongoli, circassi, russi bianchi. Un esercito disordinato, con pochi mezzi, ma che aveva tenuto in scacco l'esercito nazista per molto tempo sul fronte russo. Erano loro i vincitori.
A noi restava questa grande, straordinaria, terribile esperienza: il dolore, che non passerà mai, di aver avuto Auschwitz nella nostra vita. E il dovere di testimoniare di quello che è stato, noi che abbiamo avuto salva la vita, per tutti quelli che non possono più parlare.


Spero che almeno uno di quelli che hanno ascoltato oggi questi ricordi di vita vissuta li imprima nella sua memoria e li trasmetta agli altri, perche’ quando nessuna delle nostre voci si alzera’ a dire “io mi ricordo”, ci sia qualcuno che abbia raccolto questo messaggio di vita e faccia si’ che sei milioni di persone non siano morte invano per la sola colpa di essere nate, se no tutto questo potra’ avvenire nuovamente, in altre forme, con altri nomi, in altri luoghi, per altri motivi. Ma se ogni tanto qualcuno sara’ candela accesa e viva della memoria, la speranza del bene e della pace sara’ piu’ forte del fanatismo e dell’odio dei nostri assassini.

(Per chi volesse approfondire l'esperienza di Liliana Segre vada su http://isole.ecn.org/antifa/article/622/liliana-segre-una-testimonianza)

PER NON DIMENTICARE...

Se questo è un uomo
(Primo Levi)

Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
Voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via,
Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri nati torcano il viso da voi.”

venerdì 25 gennaio 2008

VASELINA PER TUTTI

OOOOHHHHHH CADEEEEEE
BUM CADUTO
Ieri pomeriggio tornata dalla biblioteca sono rimasta incollata davanti alla tv ad ascoltare ciò che i vari capi gruppo di partito dicevano a Prodi.
-Ti diamo la fiducia di tutto cuore,
-Te la diamo anche se...(la fiducia eh?)
-Non ti diamo la fiducia ma comunque...
-Non te la diamo neanche se fai cinquecento capriole acrobatiche una dopo l'altra (sempre la fiducia)
All'inizio ero completamente obnubilata dalla situazione ma dopo un po' mi sono cominciate a girare pesantemente le palle (o meglio le tette in quanto donna)
Lo scenario era ridicolo: mentre un capo gruppo parlava tutti gli altri si facevano i propri cazzi...vergognoso!
La cosa che mi ha lasciata veramente senza parole è stato vedere che anche tutti i bei ministri se ne strafottevano di quello che veniva detto e Prodi con loro.
Ho visto un centinaio di espressioni diverse passare sulla faccia del Professore ma francamente nemmeno una di sincero interesse.
Mi sono incazzata e parecchio perchè io gli ho dato il mio voto, perchè io ho creduto che per una volta la sinistra sarebbe rimasta unita per il bene del Paese.
Pensavo che avessero la voglia e il coraggio di costruire qualcosa di nuovo per noi italiani....
Mi sono illusa perchè giorno dopo giorno, ora dopo ora continuano a venire fuori cose sempre più atroci e oramai nessuno si scandalizza più se per colpa delle raccomandazioni non vengono nominati primari i Medici che se lo meriterebbero ma il figlio di... ilcugino di ....
Cazzo, ma è mai possibile che ci siamo abituati a tutto questo?
Non siamo più capaci di dire ad alta voce che così fa schifo, che la nostra Italia è stata calpestata dalla politica, al di là degli schieramenti?
Ora si dovrà andare a votare?
Sì, ma per chi scusate?
Per Berlusconi? Ma neancheeeeeeeeeee
Per la sinistra? dopo che ha mostrato che non riesce nanche banalmente a restare unita?
Non so, scusate a me sembra che per quanto dicano i nostri "rappresentanti politici" alla fine quelli che se lo prendono sonoramente nel didietro siamo noi.
Allora ho deciso, voterò per chi alle prossime elezioni ci regalerà un bel barattolo di vaselina gratuito a testa...

mercoledì 23 gennaio 2008

INCONTRI E CONFRONTI

Sorrido leggendo una lettera ritrovata nei giorni scorsi e datata 2000 e mentre con gli occhi la scorro rapidamente, i miei pensieri ritornano a sette anni fa, quando frequentavo il terzo anno del mio istituto professionale per il turismo.
Rivedo la Chiara di allora, parecchio timida e insicura e un po’ chiusa nel suo mondo, fatto di libri e poesie. Penso che per quanto io sia cambiata, una parte di quella sedicenne vive ancora in me e la Chiara più adulta vorrebbe starle vicino e dirle che non sarà sempre tutto nero, ma che poco alla volta, il suo sguardo sul mondo si dipingerà: arriveranno i colori e con un po’ di pazienza riuscirà a cogliere anche la sfumature.
Me la immagino di fronte a me quella sedicenne e seppure la voglia di darle consigli potrebbe essere forte, le direi solo che quello che prova è normale e giusto, che il passato non si può modificare, ma che il suo futuro le porterà molti momenti speciali.
Penso che in fin dei conti basterebbe che le dicessi solamente: sei bella perché sei Viva e sai andare al di là delle apparenze.

Se poi incontrassi la me stessa diciannovenne, credo che proverei un po’ d’invidia per il suo coraggio e la sua tenacia, che mette nel battersi contro tutto e tutti per inseguire i suoi Sogni.
La incoraggerei ad ascoltarsi veramente, a lasciare da parte i giudizi essendo semplicemente se stessa e le direi che le voglio bene, perché si batte per il suo futuro.

Infine m’immagino l’incontro con la me stessa che temo di più, quella presente: una di fronte all’altra a guardarci, come in un vecchio film western. Una della due dovrebbe fare la prima mossa; la farei io, rompendo il silenzio e andando verso di lei per abbracciarla con tutta la forza e il calore che possiedo. La prenderei per mano e le direi che non c’è fretta, che il tempo che tanto la spaventa la accompagna non le corre dietro perché ora la cosa più importante è stata fatta: il suo “cofanetto degli orrori” è stato aperto e per quanto la paura sia infinita, in fin dei conti, a ben guardare, non c’è nulla di così terribile dentro…solo la sua “consapevolezza” che cresce e la voglia di continuare il viaggio con meno peso sulle spalle.
Le direi di amare con tutta sé stessa quella sedicenne e quella diciannovenne e tutte le Chiare che l’hanno portata con gioia e fatica fino ad oggi.
Probabilmente lei sorriderebbe ad occhi chiusi, poi li aprirebbe lentamente e mi guarderebbe con dolcezza come si fa con i sogni che ci portano piccoli sussurri di verità da lontano.

martedì 15 gennaio 2008

PARAPUZZETE AWARD...the winners are:

Sono stata nominata anch'io al famosissimo PARAPUZZETE BLOGGER AWARD (spero che il Signor Thinking Blogger Award non se la prenda...)
Ad ogni modo ho deciso di nominare anch'io i blog che mi piacciono di più e con i quali mi sento maggiormente in sintonia prendendomi però la libertà di fregarmene altamente delle regole...;)
Quindi entro nel personaggio, mi schiarisco la voce eee...
The winners are:

1) Anna (http://miskappa.blogspot.com/) che nomino un po' per ricambiare la nomination :)) un po' perchè è stata il primo blog in cui sono arrivata quasi casualmente e che mi ha colpita per l'energia che ha e perchè dice la propria mettendoci tutta sè stessa. Inoltre la nomino anche perchè sono la sua "piccola"banana.
2) Marina (http://ineziessenziali.blogspot.com/) perchè ha questo modo di scrivere che cattura e che mi affascina perchè a) scopro spesso qualcosa che non so...e questo fa sempre bene b)perchè mi piace il suo modo di parlare, di dire cose difficili con estrema sempicità.
3) Cristina (http://tenetebotta.blogspot.com/) perchè il suo blog è un posto accogliente in cui mi sento al caldo, protetta dalla sua dolcezza che emerge in continuazione.
La nomino anche perchè mi ha promesso tante coccole e io sono qui con la valigia pronta.
4) Baluginando (http://baluginando.blogspot.com/) una cara amica appena conosciuta. Questa può sembrare un po' una contraddizione ma in realtà il suo modo di scrivere e le emozioni che mi trasmette sono per me come uno specchio. Mi piace entrare nelle sue storie, nelle sue favole e rimanere a bocca aperta.
5) Rockpoeta (http://agoradelrockpoeta.blogspot.com/) In queste nomination tutte al femminile un posto però è dedicato a lui il mitico Rockpoeta un uomo con le palle, uno che sa scrivere e dice la sua con decisione rimanendo aperto anche al pensiero degli altri.

Ora chiudo anche perchè devo andare a l cinema e sono leggermente in ritardo.

mercoledì 9 gennaio 2008

DONNE

A tutte le DONNE IN RINASCITA che passano di qui dedico questa
meravigliosa poesia di Diego Cugia scrittore straordinariamente
eclettico che sa emozionare e far riflettere.

Più dei tramonti, più del volo di un uccello,
la cosa meravigliosa in assoluto
è una donna in rinascita.
Quando si rimette in piedi dopo la catastrofe,
dopo la caduta.
Che uno dice: è finita.
No, finita mai, per una donna.
Una donna si rialza sempre,
anche quando non ci crede, anche se non vuole.

Non parlo solo dei dolori immensi,
di quelle ferite da mina anti-uomo
che ti fa la morte o la malattia.
Parlo di te, che questo periodo non finisce più,
che ti stai giocando l'esistenza in un lavoro difficile,
che ogni mattina è un esame, peggio che a scuola.
Te, implacabile arbitro di te stessa,
che da come il tuo capo ti guarderà
deciderai se sei all'altezza
o se ti devi condannare.
Così ogni giorno,
e questo noviziato non finisce mai.
E sei tu che lo fai durare.

Oppure parlo di te, che hai paura
anche solo di dormirci, con un uomo;
che sei terrorizzata che una storia ti tolga l'aria,
che non flirti con nessuno
perché hai il terrore che qualcuno s'infiltri nella tua vita.
Peggio: se ci rimani presa in mezzo
tu, poi soffri come un cane.
Sei stanca: c'è sempre qualcuno
Con cui ti devi giustificare,
che ti vuole cambiare,
o che devi cambiare tu per tenertelo stretto.
Così ti stai coltivando la solitudine dentro casa.
Eppure te la racconti,
te lo dici anche quando parli con le altre:
"Io sto bene così. Sto bene così,
sto meglio così".
E il cielo si abbassa di un altro palmo.
Oppure con quel ragazzo ci sei andata a vivere,
ci hai abitato Natali e Pasqua.
In quell'uomo ci hai buttato dentro l'anima;
ed è passato tanto tempo,
e ne hai buttata talmente tanta di anima,
che un giorno cominci a cercarti dentro lo specchio
perché non sai più chi sei diventata.

Comunque sia andata, ora sei qui
e so che c'è stato un momento
che hai guardato giù
e avevi i piedi nel cemento.
Dovunque fossi, ci stavi stretta:
nella tua storia, nel tuo lavoro,
nella tua solitudine.
Ed è stata crisi.
E hai pianto.
Dio quanto piangete!
Avete una sorgente d'acqua nello stomaco.
Hai pianto mentre camminavi in una strada affollata,
alla fermata della metro, sul motorino.
Così, improvvisamente.
Non potevi trattenerlo.
E quella notte che hai preso la macchina
e hai guidato per ore,
perché l'aria buia ti asciugasse le guance?
E poi hai scavato, hai parlato.

Quanto parlate, ragazze!
Lacrime e parole.
Per capire, per tirare fuori una
radice lunga sei metri che dia un senso al tuo dolore.
Perché faccio così? Com'è che
ripeto sempre lo stesso schema? Sono forse pazza?"
Se lo sono chiesto tutte.
E allora vai giù con la ruspa dentro alla tua storia,
a due, a quattro mani,
e saltano fuori migliaia di tasselli.
Un puzzle inestricabile.
Ecco, è qui che inizia tutto.
Non lo sapevi?
E' da quel grande fegato che ti ci
vuole per guardarti così,
scomposta in mille coriandoli, che ricomincerai.

Perché una donna ricomincia comunque,
ha dentro un istinto che la trascinerà sempre avanti.
Ti servirà una strategia,
dovrai inventarti una nuova forma
per la tua nuova te.
Perché ti è toccato di conoscerti di
nuovo, di presentarti a te stessa.
Non puoi più essere quella di prima.
Prima della ruspa.
Non ti entusiasma? Ti avvincerà lentamente.
Innamorarsi di nuovo di se stessi,
o farlo per la prima volta, è come un diesel.
Parte piano, bisogna insistere.
Ma quando va, va in corsa.
E' un'avventura, ricostruire se stesse.
La più grande.
Non importa da dove cominci,
se dalla casa, dal colore delle tende
o dal taglio di capelli.

Vi ho sempre adorato, donne in rinascita,
per questo meraviglioso modo di gridare al mondo
"sono nuova" con una gonna a fiori
O con un fresco ricciolo biondo.
Perché tutti devono capire e vedere:
"Attenti: il cantiere è aperto.
Stiamo lavorando anche per voi.
Ma soprattutto per noi stesse".
Più delle albe, più del sole,
una donna in rinascita è la più grande meraviglia.
Per chi la incontra e per se stessa.
È la primavera a novembre.
Quando meno te l'aspetti...

venerdì 4 gennaio 2008

HO FINITO LA CIOCCOLATA...

Ho finito la cioccolata.
Niente oro delle golose nella mia cucina, niente nella mia camera, niente nel ripostiglio...
e intanto in sottofondo Biagio mi dice che c'è sempre qualcosa che viene a farmi male.
Lo so che le cose che mi dici non si amano perchè se devo amare devo amare bene.
Oggi non divento e non invento mi lascio andare alla casualità anche perchè la neve si è sciolta e la città ha ripreso a fare un rumore assordante, intollerabile per me che fissando il libro del mio prossimo (e ultimo) esame penso "cazzo sparisci"
Sono una trottola d'umore variabile, una coperta piena di pezze di tanti colori, sono una telefonata delirante, una canzone cantata e ricantata davanti a due occhi azzurri che sono spariti.
Sono me stessa con tutte le mie emozioni mischiate e confuse e le mie immense deflagrazioni mentali.

giovedì 3 gennaio 2008

Neve a Bologna

Sono una fan della neve, proprio un’ammiratrice se così si può dire, nel senso che quando arriva, soprattutto in grandi quantità, ridivento subito bambina; vorrei stare sempre fuori a camminare a sentire i fiocchi di neve cadere sulla pelle, sulle mani.
La sera poi sono capace di rimanere un tempo indefinito davanti alla finestra ad osservarla, ad ascoltare il silenzio che si crea immediatamente intorno a lei.
La città sembra immobile sotto al suo manto e sembra che anche tutti i problemi, tutto il dolore si siano congelati…tiro un respiro di sollievo.
Mi torna alla mente che da piccola, all’asilo quando pioveva i bambini chiedevano: che cos’è la pioggia?
Le dade subito rispondevano in maniera poetica: “è la pipì degli angeli”
Un anno nevicò tantissimo e io con una certa sicurezza dissi: “Guardate la cacca degli angeli”…le maestre non la presero benissimo.
Purtroppo non ricordo la mia prima neve, ero troppo piccola, avevo solo due mesi, ma mio padre mi racconta spesso che quell’inverno a Bologna ci fu una nevicata incredibile, nevicò giorni e giorni e con tanta insistenza che mia zia si perse nel mio quartiere.
Dopo due inverni la neve tornò e cercando bene nella memoria mi ricordo che mi fece un’impressione stranissima, sembrava quasi zucchero a velo e io imitando mio cugino poco più grande di me, me ne stavo tutta imbacuccata nel giardino dei nonni a bocca aperta ad aspettare di assaggiare quella strana cosa che cadeva dal cielo.
Così capii che i fiocchetti non erano di zucchero, sapevano piuttosto di freddo, però si poteva giocare a far finta che sapessero di… cioccolata, caramelle alla fragola, gelato al gusto di crema, panna montata…
Ero felice davanti alla mia prima neve, ero così concentrata a rincorrere i fiocchi che cadevano veloci che mi ero persino dimenticata del freddo, della fame, di tutto ciò che mi circondava.
Mi rendo conto che la neve porta anche grossi disagi (mio padre non smette mai di ricordarmelo) però non riesco a ignorare la poesia che mi scatena dentro; persino nei momenti più bui la neve è stata un bel viaggio nella fantasia.
Ricordo un inverno di qualche anno fa alle prese con il mio primo esame all’università: teorie e tecniche di psicologia generale. Ogni tanto facevo una pausa, mi alzavo dalla sedia e mi affacciavo alla finestra ad occhi chiusi immaginando di essere in Finlandia o in una qualche baita in montagna.
La neve continuava ad accumularsi sugli alberi e così dopo un paio d’ore presa da insofferenza (insomma non si può stare chiusi in casa mentre fuori nevica) sono uscita, mi sono fatta un bel giro e poi me ne sono andata su nel terrazzo del mio palazzo con il mio walkman a sentire la musica.
Passò una canzone che non conoscevo ma che da allora mi accompagna quando mi sento un po’ sola e ho voglia di neve:


Il mare d'inverno è solo un film in bianco e nero visto alla TV.
E verso l'interno, qualche nuvola dal cielo che si butta giù.
Sabbia bagnata, una lettera che il vento sta portando via,
punti invisibili rincorsi dai cani, stanche parabole di vecchi gabbiani.
E io che rimango qui solo a cercare un caffè.

Il mare d'inverno è un concetto che il pensiero non considera.
E' poco moderno, è qualcosa che nessuno mai desidera.
Alberghi chiusi, manifesti già sbiaditi di pubblicità,
Macchine tracciano solchi su strade dove la pioggia d'estate non cade.
E io che non riesco nemmeno a parlare con me.

Mare mare, qui non viene mai nessuno a trascinarmi via.
Mare mare, qui non viene mai nessuno a farci compagnia.
Mare mare, non ti posso guardare così perché questo vento agita anche me,
questo vento agita anche me.

Passerà il freddo e la spiaggia lentamente si colorerà.
La radio e i giornali e una musica banale si diffonderà.
Nuove avventure, discoteche illuminate piene di bugie.
Ma verso sera, uno strano concerto e un ombrellone che rimane aperto.
Mi tuffo perplesso in momenti vissuti di già.

Mare mare, qui non viene mai nessuno a trascinarmi via.
Mare mare, qui non viene mai nessuno a farci compagnia.
Mare mare, non ti posso guardare così perché
questo vento agita anche me, questo vento agita anche me



Stamattina quando mi sono alzata dal letto mi sono subito diretta verso la finestra pensando:
“dai neve, vienimi a trovare ho proprio bisogno di te oggi”.
Sarà magia, sarà il caso, sarà il freddo ma la mia neve è davvero arrivata e ora il mio giardino è completamente bianco.
Ora vi saluto, m’imbacucco per bene, mi metto il walkman con la cassetta di Loredana Bertè e me ne vado a fare un giro.
(Durerà molto? Durerà poco? Che importanza ha, ora è qui con me ed è tempo d'immergermi)
Buona Neve a tutti!